lunedì 3 dicembre 2007

Intervista a Gianfranco Contini

Gianfranco Contini ha scritto diversi libri, fra cui il romanzo “Centottanta” (Clueb). Da poco ha pubblicato la raccolta di poesie “Impulso di verso” (Tabula Fati). Ne parla in questa intervista, senza trascurare riferimenti al suo lavoro di psichiatra e alle adiacenze tra questo e la scrittura.

La sua raccolta di poesie s’intitola “Impulso di verso”: il verso, per lei, nasce quindi da un impulso, da una molla che scatta?

“Spesso la parola si origina da un’intuizione e propone o impone un senso all’emozione. Parole siffatte rappresentano una forma di conversazione, con l’altro che alberga in ciascuno di noi e, al di là della piena consapevolezza di senso, trovano una dimensione propria, che è sorpresa, avventura, desiderio, e forse assumono la sembianza di un testo poetico”

Il titolo del suo libro si può anche leggere in altro modo, ossia come impulso “diverso”. In cosa consiste questa “diversità”?

“La diversità è la condizione del vivere quotidiano contemporaneo, siamo diversi a noi stessi, agli altri con i quali ci rapportiamo, all’invasione di stranieri che incutono timori e curiosità, all’imperativo stesso della globalità che nell’uniformare modi di essere e di consumare, contrappone una spasmodica ricerca di unicità e quindi di diversità, spesso artefatta e ingannevole”

Lei è psichiatra e ha scritto dei romanzi: qual è stato il motivo dell’approdo alla narrativa?

“La narrazione è una forma di terapia importante e delicata, nel tempo della ricerca tecnologica, della farmacologia, delle terapie genetiche, la parola come racconto e narrazione rischia di cadere nella dimenticanza sostituita da nuove forme di linguaggio che raccontano per ideogrammi neoconiati poveri di storia e privi di spessore. Emmeesseemme criptati, gif animate, clip imbizzarrite sono solo esempi dello scempio del linguaggio che rende le relazioni superfici dure e fredde prive di spessore introspettivo, pronte a riflettere al massimo azioni, spesso sconsiderate, portatrici di morte”

E come mai, poi, ha sentito di dover passare dalla narrativa alla poesia?

“Si tratta di una sperimentazione che parte dalla necessità di esprimere molteplici riflessioni a volte scoordinate in spazi ristretti, una sorta di ricerca ecologica del tempo, per dare occasioni di riflessione intorno ad un pensiero sintetico”

C’è un polo attorno al quale si coagulano i tre versanti del suo impegno? Mi riferisco alla psichiatria, alla narrativa e alla poesia.

“Cercare di riconoscere sempre il valore delle emozioni e di riflettere sui sentimenti. La dimensione affettiva ci aiuta a stare bene ma può anche creare dolore. Negare i sentimenti è la cosa più grave che può accadere ad un essere umano, la psichiatria, la psicologia, la filosofia, la scrittura in tutte le sue forme sono potenzialmente modi di difendere l’essere umano dalla perdita della competenza sentimentale”

In che arco di tempo sono state scritte le poesie raccolte in “Impulso di verso”?

“Dalla prima all’ultima sono trascorsi due anni, ma più d’una è stata scritta in una sola notte”

Sono nate di getto, sia pure dopo una gestazione interiore, oppure hanno preso forma pian piano, ritocco dopo ritocco?

“Sono nate tutte di getto, ma poche sono rimaste tali”

Claudio Magris dice che la letteratura è “un viaggio dal noto verso l’ignoto e viceversa”. Il suo lavoro di psichiatra la porta, gioco-forza, a percorrere aree liminari, dove appunto “l’ignoto” è qualcosa di più che una semplice meta: qual è il suo rapporto con “l’ignoto”?

“Avvicinarsi alla mente dell’uomo è necessariamente un viaggio nell’ignoto e nell’incerto. I saperi scientifici sull’esistere, sul pensare, sul decidere, in altri termini sulla vita psichica dell’essere umano ancora oggi poco illuminano sulle realtà ultime del provare emozioni e del dare senso alla vita. Magris muove la sua opera da Trieste, la città che per prima ha dato una svolta alla cura della malattia mentale e ha cercato di affrontare l’ignoto senza la paura che per secoli ha costretto ad emarginare il diverso, il malato di mente, l’altro da noi, dietro le spesse mura dei manicomi. Percorrere l’ignoto è l’unica possibilità oggi per non costruire barriere contro la diversità e aprire una speranza ad un futuro di pace, difficile, improbabile ma non impossibile”

E del “male”, che mi dice?

“Il male purtroppo rischia di rappresentare, in un mondo che ha perso etica e valori, l’occasione per riscattare l’anonimato; l’essere uno qualunque è il nuovo male, emergere a qualsiasi costo diventa un problema del mondo occidentale, associato alla noia e alla perdita del senso del futuro, della progettualità per migliorare se stessi e il mondo nel quale si vive. Ecco allora che il male rischia di proporsi come seducente arma di distruzione. E questo vale nel microcosmo del quartiere o di una classe qualunque delle nostre scuole, dove fare del male è una forma di piacere perverso per vincere la noia, la solitudine e la mediocrità, anche grazie alle infinite possibilità di amplificare l’azione utilizzando le deleterie forme incontrollate di diffusione dell’informazione offerte da internet. Ma vale anche nel mondo globalizzato dove il male è esercizio abituale dei potenti, che diffondono morte e distruzione per il petrolio, per la supremazia economica, o per altre forme di potere. Per ricordare Jean Baudrillard si può davvero osservare il collasso nichilistico della modernità che ha dislocato il bene dalla verticale del male e i valori non hanno più coordinate di riferimento. Ogni gesto, ogni azione sembra seguire un autonomo e incontrollato movimento, in una dimensione effimera che deve brillare per un istante di notorietà. A qualunque costo, fino a spezzare la stessa vita in un modo di esistere che mai fa incontrare l’altro in uno sforzo di comprensione empatica”

Nel suo libro però c’è anche la “solitudine”…

“La solitudine come scelta e contemplazione, la solitudine come difesa e rifiuto. La solitudine come sofferenza e dolore. Potrei continuare, in realtà quello che desidero esprimere è l’estrema variabilità della condizione soggettiva nella quale si è in solitudine. Nei pensieri che abitano alcune poesie la solitudine si mostra chiara e desiderante, oltre che desiderata, in altri si propone come via d’uscita, in altri ancora è la drammatica constatazione di una ineluttabile e tragica condizione dell’anima. Guardiamo intorno a noi: ragazzi che rotolano su tavole a rotelle con musica compressa nelle orecchie, uomini d’affari che si affannano digitando su computer portatili sempre più sofisticati, ragazze in tute sexy che corrono per tenersi in forma. Ovunque la stessa pallida solitudine, ovunque la stessa narcisistica esaltazione dell’immagine, soprattutto riferita alla rappresentazione del proprio corpo. Nello sciame che ha sostituito la massa e si rincorre caotico nelle piazze di notte, con bottiglie di alcolici in mano; nelle discoteche rumoreggianti, mercanteggiando con polveri magiche; nelle auto impazzite, per strade sempre più insicure; si annida una nuova solitudine, mortifera e tragica e senza speranza. I solitari sciamano in una moltitudine che ignora la sua stessa condizione e non hanno orientamento, non hanno meta né obiettivi, si affannano verso la ricerca inconsapevole di punti di fuga dove s’illudono di spezzare la noia. Quando sono fortunati trovano disperazione, quando va male trovano, in solitaria attesa, la morte”

E poi c’è la “fisicità”, la realtà del “corpo”. Parliamone un po’.

“Da qualunque angolatura lo si voglia osservare, il miraggio del corpo è sempre straordinario. Per alcuni è il solo oggetto sul quale valga la pena di concentrarsi, non come fonte di piacere o di sesso, ma come elemento di cui prendersi cura con infinita sollecitudine, a volte nell’ossessione del fallimento o della prestazione negativa. Il corpo allora è vezzeggiato nella illusoria certezza della sua immortalità. Oggi al corpo si chiede di essere immortale, alla scienza si demanda il compito di preservare la giovinezza e non più sola salute. Il culto del corpo è ovunque; tra lo yoga e l’estasi, tra le cliniche della bellezza e le boutique alla moda. La cura che è dedicata alla sua consistenza estetica arriva a prefigurare una sorta di maquillage da impresa funebre, creando sorrisi di labbra artefatte e zigomi artificiali che anticipano la fissità cadaverica della morte. Oggi chi non muore di fame è fissato sul proprio corpo. Edonismo estremo: il corpo è un palcoscenico dove elaborare la propria scenografia, dall’estetista o dall’esperto di tatuaggi. Tutto va bene per mostrare muscoli o curve o ombelichi gelati. La materia del corpo è roba da estetisti, miracoli di superficie, effetti in tre D, una vera e propria ossessione che radicandosi nell’immagine di superficie non sa che farsene delle profondità, per questo, forse, trascura i messaggi della mente, i segnali di inquietudine, le ansie che pure continuano a popolare i nostri sogni. Il rapporto con l’altro allora è contemplato attraverso lo schermo di un personal computer, perché il corpo e i sentimenti devono restare celati. Oppure è meglio che non si sappia che rischiamo di perderli entrambi”

L’uomo: vulnerabile nella mente e nel fisico?

“L’uomo è estremamente vulnerabile e, paradossalmente, maggiore è la consapevolezza sociale e scientifica di questa vulnerabilità, più si diffondono comportamenti a rischio. Ricordando Maffesoli, il sociologo francese che ho avuto la fortuna di conoscere, il tempo della vita quotidiana nella società occidentale contemporanea, si caratterizza per l’emergere di fenomeni simbolici e affettivi che caratterizzano un neo-tribalismo postmoderno. Le persone rivelano ad un tempo di essere banali, presenzialisti e solitari. Tutto è sostenuto e accelerato dai media di massa e, soprattutto dai nuovi media. Il postmoderno si cristallizza proprio in relazione alla particolare sinergia tra uno sviluppo tecnologico assai avanzato e il ritorno a modi di agire arcaici e a modelli rituali che si evidenziano nelle forme estreme dei più vari comportamenti: dalla sessualità alle pratiche sportive, dalla moda alla cura dell’immagine, dalla violenza gratuita alla ricerca del denaro facile, in una sfida senza senso alla morte che mette a repentaglio sia l’equilibrio del corpo, sia quello della mente”.

Intervista di Simone Gambacorta

http://www.abruzzocultura.it/abruzzo/gianfranco-contini-impulso-di-verso

giovedì 22 novembre 2007

Novità editoriale: IMPULSO DI VERSO

Parole in poesia, impulsi che spingono il pensiero a lasciarsi raccontare dalle sensazioni. La vertigine del sentire si lascia revitalizzare e invadere da un flusso che travolge, sia pure nello spazio di un verso, di una strofa, di una rima. Poesie diverse, sguardi incrociati sul macrocosmo dei grandi problemi e sul microcosmo delle passioni personali. A tratti, nelle poesie di Gianfranco Contini, s’intravede e si staglia lo spiraglio di un pensiero — il pensiero — quasi fosse in agguato nel vortice di un’euforia tentata ma effimera: quella del vivere intensamente il proprio passaggio nel tunnel veloce del tempo, pur così lungo da trascorrere.


Gianfranco Contini, psichiatra, si è formato alla psicoterapia ad indirizzo psicoanalitico a Bologna presso il Gruppo “Psicoterapia e Scienze Umane” .
Ha lavorato nei servizi per la salute mentale in Lombardia, Molise ed Emilia Romagna. Ha diretto il progetto di chiusura dell’Ospedale Psichiatrico “San Lazzaro” di Reggio Emilia.
Ha svolto attività di docente per le scuole di specializzazione in psichiatria delle università di Bologna e Chieti. È membro del Comitato Scientifico della collana di “psicoterapia e psichiatria” della Casa Editrice Clueb di Bologna ed è direttore scientifico della rivista “Prospettive in psicologia”.
È autore di articoli e testi scientifici. Ha pubblicato sei libri: Lavorare con gli psicotici (Bagatto, Roma 1985); Elementi di psichiatria pubblica (Age, Reggio Emilia 1989); Vita quotidiana nelle famiglie degli schizofrenici (NIS, Roma 1991); Introduzione alla psichiatria (EdiSES, Napoli 1992); Psichiatria Pratica (UTET, Torino 1994); Il miglioramento della qualità in riabilitazione psichiatrica (Centro Scientifico, Torino 1999).
Ha curato nove volumi di interesse psichiatrico: Le nuove istituzioni della psichiatria (1981); I primi pazienti della psicoanalisi (1985); Il manicomio dimenticato (1988); I confini della psicoanalisi (1989); La rivista scientifica come mezzo di informazione e cultura (1989); Pornografia e salute mentale (1989); Psichiatria e Medicina di base (1991); La Sindrome maligna da neurolettici (1994); Il tramonto del manicomio (1998).
Ha ideato e realizzato sette video didattici e scientifici: “Il lavoro psichiatrico in un Servizio Territoriale” (1992), presentato al convegno “Immagini della mente”; “180 Addio?” (1992); “La Relazione terapeutica con il paziente grave: Magda” (1993); “Euripilo e Patroclo: rapporto del Medico con il paziente” (1993); “La Cura” (1994), che ha vinto la medaglia di bronzo al Prix Leonardo per il filmati scientifici; “Esercizi sul Delirio” (1997); “Riabilitare in ambiente naturale” (2004).
È autore di due romanzi: Alla fine del dolore (Tracce, Pescara 2004); Centottanta (Clueb, Bologna 2006).

Gianfranco Contini
IMPULSO DI VERSO
Presentazione di Pina Lalli
Edizioni Tabula fati
[ISBN-88-7475-120-6]
Pagg. 96 - € 6,00

http://www.edizionitabulafati.it/impulsodiverso.htm

mercoledì 14 novembre 2007

RECENSIONE di Antonella Santarelli a IL NANO DI VELAZQUEZ

Illuminante la frase di J.G. Ballard posta all’inizio dell’opera poetica:

“Specialmente adesso che il sesso sta diventando sempre più un’azione concettuale, intellettualizzata, lontana sia dall’affetto che dalla fisiologia, si devono tenere ben presenti i meriti delle perversioni sessuali”.

Illuminante perché facilita la comprensione dei componimenti in cui la perversione trasfigura generi umani e simboli: a partire dalla figura femminile, quasi temuta nella differenza procreativa negata al maschio che può solo dipendere da lei nelle risposte a bisogni essenziali:

“… Non sappiamo per quale anatomia, per quale
fattura o scienza occulta erompe
dalle mammelle benedette un filo di nutrimento
che gonfia le guance dei neonati, questi
travasano il nettare caldo che un poco tracima
dalla bocca, spalancano gli occhi a ogni sorso,
acquistano dalla nutrizione una rapida statura,
fieri della peluria che s’arcigna…”

La perversione appare un tentativo di riappropriazione della dimensione umana, colpita dalla solitudine e da abitudini legate ai consumi, prive di logicità. Il testo poetico sembra a volte diluirsi in visioni oniriche, anch’esse dense di simboli: come il nano, da sempre evocatore di immagini allusive, che introduce l’ospite prescelto nella stanza della padrona della
“... masseria nascosta da pini meticci
rimessa ad agriturismo con pochi ritocchi culturali…
… Improvvisamente il Nano mi appare silenzioso
seduto sulla severa cadrega d’ebano
con le braccia conserte in paziente posizione d’attesa
nello spazio di paura che conduce alla stanza successiva
nascosta da un drappo pesante di panno viola…”

La perversione narrata, però, non inquieta e induce a soffermarsi con calma sulle immagini che scorrono seguendo rivoli riflessivi o affondano in ambiti allusivi che rendono vicino e reale il non detto, così intimamente legato al mondo delle pulsioni che difficilmente si fanno parola.
Si percepisce allora come le perversioni, a volte legate indistricabilmente all’ avversione a qualcosa e a qualcuno, appartengano alla nostra psiche pur non riconoscendole ed evitando di dar loro cittadinanza nella nostra esistenza. Esistenza regolata da meccanismi infernali imposti da mode, queste sì, disumanizzanti. Il sogno della vendetta sembra ispirare il componimento in cui, rovesciando inizialmente l’angolatura tra reale e irreale, tra nord e sud del mondo, viaggiatori ricchi si abbandonano alla rotta di chi che gode nell’eliminare il campionario di esseri imbecilli saliti sulla nave:
“… Noi siamo colti da orrore improvviso
del vacuo e si fa l’adunanza, molti mormorano
che gli scafisti hanno descritto una terra che non c’è,
il capitano vuole ritornare. Allora il vecchio
guarda l’omega d’oro e guarda l’ultimo orizzonte,
io lo assecondo e uccido il capitano alla gola,
prendo il comando, spingo avanti la candida nave…”.

La rotazione, direi a 180° gradi perché più visibile di altre nel rovesciamento di situazioni “normali” pur nella loro devianza, trova conferma nei versi seguenti:
“… I piccoli bambini navigano attenti
su internet perché sono alla posta di siti
della gerontofilia sotto forma di domanda
vuoi adottare un nonno…”

E altrettanto illuminante è la frase che chiude la raccolta:

“Le perversioni, in quanto attenzione dell’uomo per l’uomo, rappresentano in primo luogo una forma coatta e quasi sempre sofferta di umanesimo”. (Anonimo)

Forse, riconoscerle e conferire loro cittadinanza e parola, può aiutare a non farsi inghiottire dalla nera caverna dove i desideri si confondono con le mancate risposte a bisogni inascoltati.


http://forummediterraneoforpeace.it.forumfree.it/?t=22391536

sabato 2 giugno 2007

Una recensione alla raccolta di versi della poetessa abruzzese Anna Ventura

Molte delle poesie pubblicate da Anna Ventura in “Cinquanta poesie” sembrano prendere forma grazie a una sorta processo di disvelamento. Processo che si attua attraverso l’acquisizione dell’oggetto comune, del momento abituale, del luogo possibile come elementi capaci di innescare il cortocircuito che genera il verso. L’osservazione del circostante consente alla poetessa di risalire la corrente delle memorie intime, oppure di scorgere un punto di fuga da cui poi si sviluppa, tramite una traduzione metaforica, un’immagine compiuta, inizialmente suggerita da un frammento del presente, di evidente forza poetica. All’assenza di verbosità e all’equilibrio strutturale dei componimenti si uniscono alcune caratteristiche ricorrenti, come il nitore espressivo, l’agilità strofica e l’omogeneità timbrica. Quella di Anna Ventura è perciò una scrittura poetica sobria, composta, talvolta severa, ma non povera, né spigolosa e arida. Spesso si vale di toni conversativi, colloquiali, sfrondati da ampollosità e ridondanze, con ampio giovamento del vigore espressivo e della scansione ritmica. Le poesie di Anna Ventura offrono una larga possibilità di partecipazione, lasciando assaporare un sostrato umano disseminato dagli accenti di una forte sensibilità femminile. Questa femminilità non rappresenta tuttavia una forza prevaricatrice dei versi, tanto meno costituisce una premessa per sdolcinate ostentazioni di buoni sentimenti. È piuttosto parte della condizione di un’identità che rivela un’indole riflessiva e intellettualmente robusta, speculativa nella misura in cui riconosce come improbabile il possesso di una totalità e ammette, viceversa, la prossimità a una parzialità possibile, sulla scorta di un’accettazione serena, ma non semplicistica e inconsapevole, della vicenda umana. Anna Ventura conferma le proprie qualità scrittorie, testimoniando, con una raccolta che ripercorre il suo percorso poetico, il coraggio di porsi extra limites: oltre i confini sin troppo battuti della più ovvia consuetudine regionale, con ciò dimostrando, fra l’altro, come sia possibile esprimere il legame con la propria terra adottando modalità moderne, sostenute dalla frequentazione assidua delle più significative esperienze novecentesche. Esiste poi un altro aspetto da sottolineare: il libro si arricchisce di una versione in francese delle poesie, nella traduzione di Paul Courget, letterato francese di vastissima erudizione. Motivo in più per assaporare i versi di Anna Ventura in forma uguale e diversa: quella di una poesia che appunto si muove extra limites.

(Anna Ventura, “Cinquanta poesie”, Tabula Fati, pp. 143, Euro 7,00)

Simone Gambacorta

http://www.abruzzocultura.it/abruzzo/anna-ventura-cinquanta-poesie