mercoledì 14 novembre 2007

RECENSIONE di Antonella Santarelli a IL NANO DI VELAZQUEZ

Illuminante la frase di J.G. Ballard posta all’inizio dell’opera poetica:

“Specialmente adesso che il sesso sta diventando sempre più un’azione concettuale, intellettualizzata, lontana sia dall’affetto che dalla fisiologia, si devono tenere ben presenti i meriti delle perversioni sessuali”.

Illuminante perché facilita la comprensione dei componimenti in cui la perversione trasfigura generi umani e simboli: a partire dalla figura femminile, quasi temuta nella differenza procreativa negata al maschio che può solo dipendere da lei nelle risposte a bisogni essenziali:

“… Non sappiamo per quale anatomia, per quale
fattura o scienza occulta erompe
dalle mammelle benedette un filo di nutrimento
che gonfia le guance dei neonati, questi
travasano il nettare caldo che un poco tracima
dalla bocca, spalancano gli occhi a ogni sorso,
acquistano dalla nutrizione una rapida statura,
fieri della peluria che s’arcigna…”

La perversione appare un tentativo di riappropriazione della dimensione umana, colpita dalla solitudine e da abitudini legate ai consumi, prive di logicità. Il testo poetico sembra a volte diluirsi in visioni oniriche, anch’esse dense di simboli: come il nano, da sempre evocatore di immagini allusive, che introduce l’ospite prescelto nella stanza della padrona della
“... masseria nascosta da pini meticci
rimessa ad agriturismo con pochi ritocchi culturali…
… Improvvisamente il Nano mi appare silenzioso
seduto sulla severa cadrega d’ebano
con le braccia conserte in paziente posizione d’attesa
nello spazio di paura che conduce alla stanza successiva
nascosta da un drappo pesante di panno viola…”

La perversione narrata, però, non inquieta e induce a soffermarsi con calma sulle immagini che scorrono seguendo rivoli riflessivi o affondano in ambiti allusivi che rendono vicino e reale il non detto, così intimamente legato al mondo delle pulsioni che difficilmente si fanno parola.
Si percepisce allora come le perversioni, a volte legate indistricabilmente all’ avversione a qualcosa e a qualcuno, appartengano alla nostra psiche pur non riconoscendole ed evitando di dar loro cittadinanza nella nostra esistenza. Esistenza regolata da meccanismi infernali imposti da mode, queste sì, disumanizzanti. Il sogno della vendetta sembra ispirare il componimento in cui, rovesciando inizialmente l’angolatura tra reale e irreale, tra nord e sud del mondo, viaggiatori ricchi si abbandonano alla rotta di chi che gode nell’eliminare il campionario di esseri imbecilli saliti sulla nave:
“… Noi siamo colti da orrore improvviso
del vacuo e si fa l’adunanza, molti mormorano
che gli scafisti hanno descritto una terra che non c’è,
il capitano vuole ritornare. Allora il vecchio
guarda l’omega d’oro e guarda l’ultimo orizzonte,
io lo assecondo e uccido il capitano alla gola,
prendo il comando, spingo avanti la candida nave…”.

La rotazione, direi a 180° gradi perché più visibile di altre nel rovesciamento di situazioni “normali” pur nella loro devianza, trova conferma nei versi seguenti:
“… I piccoli bambini navigano attenti
su internet perché sono alla posta di siti
della gerontofilia sotto forma di domanda
vuoi adottare un nonno…”

E altrettanto illuminante è la frase che chiude la raccolta:

“Le perversioni, in quanto attenzione dell’uomo per l’uomo, rappresentano in primo luogo una forma coatta e quasi sempre sofferta di umanesimo”. (Anonimo)

Forse, riconoscerle e conferire loro cittadinanza e parola, può aiutare a non farsi inghiottire dalla nera caverna dove i desideri si confondono con le mancate risposte a bisogni inascoltati.


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